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Una scolaresca napoletana nel Regno di Napoli

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  • Una scolaresca napoletana nel Regno di Napoli

    Una scolaresca napoletana nel Regno di Napoli

    Capitolo I


    (Diario del piccolo Francesco Latella). Fatti e personaggi del Regno delle due Sicilie viste con gli occhi di un bambino

    Il ragazzo torinese

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    Sabato 22 ottobre 1859

    di
    Domenico Iannantuoni



    La giornata di oggi è iniziata nel peggiore dei modi.
    Iarossi non occupava il suo banco e tutti pensammo che fosse al San Gennaro.
    Il maestro, in piedi, si appoggiò con le braccia leggermente allargate sul piano della cattedra e ci guardò tutti con fare tristissimo, il silenzio che si generò fu totale. Poi ci disse:
    - Cari ragazzi, vi devo dare una brutta notizia. Il Papà di Iarossi è morto stanotte pur tra mille cure e assistenze date dall'ospedale. Questa mattina ho parlato lungamente con il direttore per poter dare, dopo le esequie, una sistemazione al piccolo Angelo Iarossi, che voi sapete era già orfano di madre. Ora è rimasto solo con se stesso e solo la vostra profonda amicizia potrà lenire il suo dolore.-
    Gli occhi del maestro erano umidi e tra di noi qualcuno iniziava a piangere.
    Il maestro fissò lungamente il soffitto dell'aula per poi riprendere a parlare visibilmente emozionato.
    - Vedremo come aiutare Angelo. Il direttore avrebbe proposto l'Ospizio dei Poveri, lì oltre diecimila giovani di ogni estrazione sociale trovano ricovero, scuola e formazione fino al lavoro. Oppure potremmo sentire l'assistente speciale di nostro Re Francesco, per una eventuale sistemazione presso la Nunziatella, il nostro famoso collegio militare, che saltuariamente e per particolari situazioni accoglie anche giovani orfani...vedremo.-
    Proprio in quel mentre bussarono alla porta e subito dopo entrarono il direttore ed un ragazzo alla sua mano. Si avvicinò al maestro Riggio e confabularono un attimo, poi egli si girò verso la nostra scolaresca.
    - Cari ragazzi, so che il vostro maestro vi ha dato notizia del Sig. Iarossi. Per i funerali tutta la scuola vi parteciperà e darò quindi la giornata di riposo con l'impegno che il nostro corteo funebre partirà da qui, e dunque vi chiedo di essere puntuali alle ore 10 del giorno di dopodomani, davanti all'ingresso.
    Tutti gli insegnanti faranno il servizio d'ordine.
    Per il vostro compagno Angelo Iarossi, io mi sto muovendo ai massimi livelli per trovargli la miglior sistemazione, ma come potete ben immaginare, nella sua condizione di orfano di entrambi i genitori, non sarà facile mantenere una sua autonomia personale.
    Gli unici parenti che Angelo ha vivono in un paese lontano da Napoli, e non vogliamo che i suoi promettenti studi abbiano a fermarsi.-
    Il direttore finite le comunicazioni si volse verso il ragazzo che aveva accompagnato e disse:
    - Pur se oggi è una circostanza triste, voglio e devo presentarvi un nuovo vostro compagno, Roberto Cirio, che viene da molto lontano e precisamente dalla Città di Torino, capitale del Regno di Sardegna.-
    In aula iniziò a sentirsi un brusio crescente subito fermato dal maestro con un'alzata di mano.
    - Egli viene nel nostro Stato al seguito del padre che è un industriale esperto di "appertizzazione", ossia di confezionamento di prodotti in scatola metallica. Dovrebbe fermarsi per tutto l'anno; accoglietelo con un applauso di benvenuto!-
    Il direttore uscì velocemente dall'aula accennando ad un saluto.
    Tutti applaudimmo al nuovo arrivato che andò a sistemarsi provvisoriamente al banco di Iarossi che in quell'occasione era naturalmente vuoto.
    - Bene- Proseguì il maestro. - L'arrivo di Roberto Cirio, con il quale tutti sarete amici, mi ha fatto venire in mente dei progressi del nostro Stato nel settore alimentare ed in particolare al viraggio della barbabietola da zucchero per ottenere un prodotto industriale sopraffino che qualcuno inizia già a chiamare il “carbone della macchina umana”.
    Il maestro con gli occhi già rapiti dall'immaginazione si recò alla cattedra e si sedette comodamente. Riprese così:
    - Il nostro ing. Luigi Giura costruì proprio a Sarno, in provincia di Salerno, il primo stabilimento per l'ottenimento dello zucchero dal viraggio della barbabietola. Era il 1836 e quello fu il primo stabilimento del genere in tutta l'Italia, un orgoglio delle Due Sicilie. Un genio, questo è il nostro ingegnere di Stato...
    - Mi fa piacere che proprio qui, sul suolo napoletano, altri luminari, come il Sig. Cirio, si cimentino in ardite applicazioni di ingegneria...
    La campana iniziò a suonare la fine delle lezioni mentre eravamo incollati alle sedie per ascoltare il racconto del maestro.
    Il maestro facendo spallucce ci disse:
    - Bene ragazzi, uscite con calma e formate la fila fuori dalla porta...con l'ing. Luigi Giura proseguiremo più avanti.
    Facendo la fila tutti volemmo salutare di persona Roberto Cirio e dargli un bacio di benvenuto. Egli ne fu felicissimo e sicuramente commosso ci abbracciava con forza.

    Tratto dal libro
    FEGATO
    di Domenico Iannantuoni

  • #2
    Stare insieme

    Stare insieme

    Mercoledì 26 ottobre 1859

    di
    Domenico Iannantuoni
    La mia terza A è proprio una bella classe.
    A parte il triste evento di Iarossi, il quale subito ci ha scritto il giorno dopo il suo ingresso alla Nunziatella recapitando a mano la sua missiva al nostro maestro e nella quale diceva di trovarsi bene nel collegio militare; ogni mattina siamo tutti contenti di ritrovarci insieme.
    E' come se ognuno di noi avesse dei ruoli preordinati da chissà chi, ma ruoli tra loro complementari che danno molta armonia. Ad oggi per esempio non c'è mai stato alcun litigio e perfino Meomartino, il primo della classe, almeno a tratti, sembra aver compreso questo clima.
    Il merito di tutto questo io so a chi va attribuito; al nostro maestro Riggio.
    Certo siamo abbastanza vivaci e quando capita che il maestro tardi un paio di minuti perché impegnato in segreteria, un po' di baccano lo facciamo. Ad esempio giocando a figurine (copertura a lancio di immaginette sacre) io sono un maestro e sfido i miei compagni quando vediamo che abbiamo qualche minuto di libertà. Ma appena entra il maestro Riggio tutto si ferma in un baleno come ieri:
    - Bene bene bene – disse il maestro sfregandosi le mani ed osservando il piccolo capanello di bambini intenti a raccogliere celermente le immaginette da terra. -
    - Voi non immaginate che voglia avrei di mettermi a giocare con voi!- Disse guardandomi sorridendo.
    - Fuori le immaginette!- Mi ordinò perentoriamente.
    Prese le figurine (definirle immaginette ormai non aveva più senso), le mischiò e me ne diede la metà.
    - Forza tocca a te, io sono ospite!- Io titubante spostai l'ultimo banco al centro e realizzai lo spazio necessario quindi tirai la prima figurina. Il maestro tirò la seconda che andò a coprire la mia, subito e prontamente si sollevò un "ohhhh" di meraviglia dai compagni intorno. Tirai ancora ed il maestro con mira incredibile coprì anche quel tiro! Poi si fermò e ci disse:
    - Bel gioco, vero? Anch'io quando avevo la vostra età vi giocavo.- Bravo Francesco, qualche giorno ci cimenteremo in una vera e propria gara, vai pure al tuo posto.-
    Mise a posto il banco e si recò alla cattedra prendendovi posto,
    si sedette inclinando la sedia per osservarci meglio. Poi chiuse gli occhi e prolungò le braccia in avanti e piano piano sollevò gli arti inferiori sempre in avanti e… miracolosamente vedemmo che stava in equilibrio solo sulle due gambe posteriori della sedia!
    Tutta la scolaresca iniziò a battere le mani e qualcuno anche fischiò di gioia. Non avevamo mai visto una cosa simile; quelli che stavano davanti si alzarono ed andarono ad osservare da vicino quella “composizione” che ti lasciava con il fiato sospeso. Se fosse caduto all’indietro si sarebbe fatto malissimo.
    Poi il maestro aprì gli occhi e con un guizzo si fece ricadere in avanti e ci guardò allargandosi in un sapiente sorriso..
    - Cari ragazzi, oggi vi parlerò di fisica e principalmente delle condizioni di equilibrio, in questo momento avete osservato la condizione dell’equilibrio “precario”.
    Il maestro era veramente in gamba e nonostante le condizioni di equilibrio non facessero parte del programma di terza lui volle assolutamente parlarcene.
    Quella mattina imparammo benissimo l’equilibrio quando è stabile, quando indifferente e poi precario!
    Ogni tanto qualcuno di noi tentava la posizione precaria con la propria sedia e proprio Maraglino, la nostra macchietta di classe, esagerando nel tentativo carambolò all’indietro con un frastuono assordante, tra l’ilarità di tutti noi e le sconquassate risate di chi aveva osservato la scena.
    Il maestro corse subito da lui per accertarsi che non si fosse fatto male e lo aiutò a rialzarsi.
    Fu una delle lezioni più belle che io ricordi.


    Tratto dal libro
    FEGATO
    di
    Domenico Iannantuoni

    Commento


    • #3
      Bontà d’animo, volontà e discrezione

      Bontà d’animo, volontà e discrezione

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      Giovedì 27 ottobre 1859

      Ogni mattina notavamo che il nostro compagno Loffredo, simpatico ma taciturno, giungeva a scuola ai limiti del tempo utile e qualche volta trovava la porta già chiusa con il maestro impegnato nell’appello e quindi veniva accompagnato dal bidello dell’atrio..
      Lui si scusava in questo caso adducendo motivazioni diverse ma sempre credibili.
      Qualcuno notò anche che non veniva mai accompagnato a scuola da nessun genitore o parente, questo accadde con il padre solo in occasione dell’iscrizione.
      Un giorno di questi il maestro si soffermò su questo fatto e lo chiamò per avere ulteriori spiegazioni, ma Loffredo addusse le solite scuse quali intoppi lungo la strada, che si era svegliato all’ultimo momento e così via.
      Il maestro gli chiese anche dove abitasse e sminuendo il tutto, lo invitò a sedersi e a stare attento alla lezione.
      Il pomeriggio stesso il maestro si recò a casa di Loffredo che era praticamente nel rione Sanità, ma già in prossimità del quartiere della nostra scuola, egli chiese del bambino.
      - Chi, Antonio, Antonio Loffredo?- Sì intendo lui.
      - Quello è un santo ragazzo che tiene la madre ammalata e che dicono stia anche peggiorando e che ora sta sempre a letto. Il padre è un impiegato dello Stato e lavora come addetto alle pulizie negli uffici del Ministero di non so che…non mi ricordo.-
      - Ah grazie, sì intendo proprio lui, buon uomo.- Rispose il maestro e soggiunse:
      - Deve sapere che io sono il maestro di Antonio e non riesco a capire perché viene a scuola sempre con un po’ di ritardo, sempre giustificato nei limiti però; ed è questa la ragione per cui le ho domandato.-
      - Questo non lo so,- rispose la persona- quello che so è che è un ragazzo che si alza di buon’ora…verso le cinque del mattino e va a lavorare. Se poi vada anche a scuola non saprei dirle.-.
      - Grazie delle sue informazioni, signore, grazie di cuore!- Rispose il maestro allontanandosi.
      Il mattino seguente il maestro, prima delle cinque, si appostò nei pressi dell’abitazione di Loffredo fingendo di leggere il giornale mentre albeggiava, per non farsi riconoscere, e dopo poco vide uscire il ragazzo con tanto di cartella in mano. Questi si intrufolò rapidamente in una viuzza ed il maestro prontamente prese a seguirlo sempre coprendosi il volto e stando attentissimo a non essere individuato.
      Fece parecchia strada Loffredo finchè non giunse in Via San Gregorio Armeno, la famosa via dove sono concentrati tantissimi artigiani dei presepi natalizi, vanto napoletano in tutto il mondo, e quindi si fermò davanti ad un piccolo laboratorio che pareva ancora chiuso. Spinse la maniglia in ferro, aprì la porticina e scomparve all’interno.
      Il maestro proseguì dritto per poi fermarsi ritornando sui suoi passi dal lato opposto e si avvicinò ad una finestrella che dava proprio sul laboratorio ove era entrato Antonio.
      Una luce fioca rischiarava l’ambiente e così ebbe modo di vedere in quella luce giallognola e fluttuante alcuni operai seduti ed altri in piedi, tutti indaffarati nella loro opera di costruzione delle statuette natalizie.
      Vide nettamente anche Loffredo che, rimboccate le maniche, lavorava alacremente per quello che poteva essere il suo ruolo di assistente di laboratorio. Fino alle 6:30 lo vide preparare i colori, portare l’acqua al tornitore, assistere il decoratore che urlava sempre la necessità di pennelli più appropriati rivolgendosi ad Antonio.
      Insomma era proprio un bel da fare per il giovinetto che non poteva mai stare fermo in un posto.
      Il maestro, calcolò il tempo a sua disposizione e decise di andare a mangiare una sfogliatella e bere qualcosa di caldo, presso un caffè che distava poche decine di metri dal laboratorio.
      Dopo una mezzora abbondante, verso un quarto alle otto si appostò sull’uscio del caffè scrutando la porta del laboratorio e cercando di capire il momento in cui sarebbe uscito Antonio.
      Poco dopo ecco uscire il ragazzo con la cartella in mano e lui, il maestro, lo raggiunse in men che meno e facendo finta di nulla lo superò fingendo sempre di leggere il giornale che teneva stretto tra le mani.
      Poi argutamente, dopo una quindicina di metri, simulò la caduta a terra del giornale ed imprecando bonariamente si chinò per recuperarlo voltandosi verso il ragazzo che stava sopraggiungendo. La sorpresa del ragazzo non mancò.
      - Loffredo, cosa ci fai tu qui?-
      - Buongiorno Sig, Maestro, sto andando a scuola. Che piacere incontrarla!-
      - Il piacere è più che altro mio, caro Loffredo così facciamo la strada insieme, però teniamo un passo lesto sennò arriveremo in ritardo… ma scusami Loffredo, soggiunse il Maestro.
      - Tu ieri non mi avevi detto che abitavi da tutt’altra parte, verso il Rione Sanità?- Aggiunse il maestro guardando bene in viso il ragazzo che subito arrossì.
      - Veramente sono venuto a fare un servizio per i miei genitori questa mattina.- Egli rispose prontamente.
      - Capisco….- Disse il maestro che nel frattempo aveva preso la mano del suo allievo.
      - Dunque ti sei alzato prima stamattina? Aggiunse.
      - Niente di particolare Sig. Maestro, solo una mezzoretta prima, giusto per recarmi qui a fare il servizio.- Concluse il ragazzo, certo di averla fatta franca.
      La testa del maestro rimuginava continuamente perché non capiva il significato di quella bugia per quanto innocente potesse essere. Poi prese la decisione e si fermò di colpo girandosi verso il ragazzo.
      - Senti Loffredo, devo dirti la verità, non posso mentirti. Io ti ho seguito da stamattina presto, da prima delle cinque e proprio da casa tua. Ho visto tutto e so quello che hai fatto anche dentro quel laboratorio!-
      Loffredo abbassò lo sguardo rimanendo zitto, poi iniziò a piangere sommessamente e quindi abbracciò il suo maestro che prontamente lo accolse con affetto baciandolo sulla fronte.
      - Forza Loffredo, camminiamo più in fretta sennò a scuola arriveremo in ritardo come solitamente arrivi tu e gli strizzò l’occhio nel senso dell’intesa.-
      Loffredo raccontò al maestro durante il tragitto che quel lavoro mattutino di circa tre ore era importantissimo per il sostentamento della sua famiglia e che sua madre, ormai da tempo allettata, aveva bisogno di cure. Anche suo padre lavorava sodo fin dalle quattro del mattino e così riuscivano a mantenersi.
      Arrivati a scuola il maestro si fermò e disse:
      - Caro Loffredo, sei una persona meravigliosa, quello che tu stai facendo oggi per tua madre ti onora. Soprattutto poi ti onora il fatto che tu volessi tenerlo segreto per evitare piaggerie di sorta. Sei onesto e dignitoso. Ne parlerò con il direttore di questo tuo impegno di lavoro mattutino, affinchè possa chiudere un occhio sui tuoi ritardi di ingresso.-
      Quel giorno il nostro maestro e Loffredo entrarono a scuola insieme, con qualche minuto di ritardo e prima dell’appello volle presentarci un nuovo Loffredo, un compagno mirabile. Il nostro lavoratore studente.
      Nei giorni appresso io andai a trovarlo nel pomeriggio presso il laboratorio presepiale, dove Loffredo faceva ancora un paio d’ore di lavoro e ne rimasi molto orgoglioso.


      Tratto dal libro
      Fegato
      di Domenico Iannantuoni

      Commento


      • #4
        La mia maestra di prima e seconda e la sua partenza


        La mia maestra di prima e seconda e la sua partenza
        Venerdì 28 ottobre 1859

        Questo sabato venne a trovarci in classe la nostra maestra di prima e seconda, Maria Rocca Farinacci di Isernia. Una gentilissima signora, abbastanza giovane e molto bella, sposata da poco con un ingegnere. Era vestita in modo molto elegante, come soleva usare anche gli anni passati, nell’occasione indossava un abito color glicine ed un corpetto in tinta più scura ma sempre intonata. Un simpatico cappellino, sempre in color glicine, ma arricchito da nastri in tinta con il corpetto, adornava il suo capo ed i suoi bei capelli neri fuoriuscivano ordinati.
        Ella fu molto felice di vederci tutti e fece anche conoscenza del nostro nuovo maestro e degli studenti che si erano aggiunti al nostro corso. Ci baciò tutti passando tra le file dei banchi.
        Ci elogiò anche per il nostro comportamento durante i suoi anni di insegnamento.
        Poi rabbuiandosi un pochino in viso ci disse:
        - Questo mio saluto , cari ragazzi, tenetelo sempre nel cuore e ricordatemi ogni tanto perché devo partire e difficilmente potremo rivederci. Vado in Sicilia, abbastanza vicino a Palermo, la nostra seconda capitale. Devo seguire mio marito che ha avuto un incarico presso la direzione della Ditta OROTEA, un’incarico molto ambito ma altrettanto impegnativo. Spero di poter trovare posto presso un istituto scolastico del luogo perché di restare a casa non ne ho proprio voglia.-
        Detto questo ci salutò coralmente, abbracciò e baciò il maestro Riggio, quindi uscì, ma mentre usciva mi guardò e mi inviò un bacio accompagnato con la mano. Io arrossii ma ne fui molto contento.
        - Bene, bene, benone.- Disse il maestro per dissimulare un po’ di tristezza che si era formata in classe, girandosi di scatto verso tutti noi, e subito aggiunse:
        - Voi conoscete la Ditta OROTEA?- Un insieme di no uscì coralmente.
        - Male, molto male. Voi non leggete mai i nostri annali.- Disse in modo crucciato.
        - Annali che potreste recuperare gratis, tra l’altro, presso le stamperie nazionali.- Ma poi ne parleremo.
        Il maestro era veramente simpatico e soprattutto coltissimo. Si capiva fin da subito che amava la storia e le discipline delle scienze. Si recò davanti alla lavagna e munito di gessetto disegnò una bellissima nave a vapore, disegno completo di onde che si infrangevano sulla chiglia della nave, con tanto di vessilli marittimi tra i quali scarabocchiò quello della nostra bandiera dinastica.
        Anche nel disegno mostrava sveltezza e precisione.
        Ci guardò e disse:
        - Chi di voi conosce il nome di questa nostra nave?_-
        Un brusio diffuso fu la risposta.
        Il maestro mi guardò e mi disse:
        - Francesco dimmi tu, come si chiama questa nave?
        - Non saprei sig. Maestro, so che mio padre mi parla dei grandi sviluppi del vapore nel nostro Regno, ma proprio non la conosco.-
        - Bene ragazzi questo piroscafo “a vapore”, fu il primo piroscafo a vapore del Mediterraneo a raggiungere gli Stati Uniti d’America!- Detto questo mise i pollici allo scalfo del gilet e si gongolò non poco osservandoci con il suo classico sorriso. Poi aggiunse:
        - Sì, noi delle Due Sicilie siamo stati i primi nel Mediterraneo a solcare l’oceano Atlantico con il “vapore”, solo dopo Inghilterra e Francia.- E proseguì.
        - L’armatore fu la Società Sicula Transatlantica del palermitano Salvatore de Pace. Salpò da Palermo nel 1853 ed impiego’ solo 26 giorni di navigazione per giungere in America del Nord. Il nome del Piroscafo è il “Sicilia”- Ora sulla Lavagna vi ho disegnato l'Ercole la nostra prima nave interamente metallica e che assomiglia molto al Sicilia!
        Tutti rimanemmo felici dall’apprendere questa notizia. Il maestro poi si riprese un po’ più serio e proseguì.
        - La vostra maestra è venuta a salutarci perché seguirà il marito in un impegno di lavoro molto gravoso. Egli andrà a lavorare come dirigente presso la Ditta OROTEA, che sta abbastanza vicina a Palermo. Questa Dittà è famosa in tutto il mondo per la produzione di tutte le attrezzature necessarie alla navigazione, quali sestanti e ottanti e soprattutto nelle apparecchiature di misura e controllo della forza del vapore, quali termostati, pressostati, manometri di Bourdon, sensori di fiamma e quindi macchine per la misurazione della velocità dei motori e della nave e tantissimo altro…un’Azienda l’OROTEA molto importante e strategica per la nostra industria navale e meccanica in genere. Un nostro orgoglio nazionale.- Poi aggiunse:
        - Cari ragazzi, siamo in un momento cruciale della vita della nostra nazione dove il PROGRESSO scientifico avanza a passi da gigante; dove la scoperta di domani è sicuramente molto più importante di quella di ieri.
        La giornata finì con queste bellissime immagini che il maestro Riggio ci aveva offerto con la sua nota semplicità ma soprattutto con il suo costante amore per il bello.


        Tatto dal libro

        FEGATO
        di Domenico Iannantuoni

        Commento


        • #5
          A spasso per Napoli


          A spasso per

          Napoli

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          Domenica 30 ottpbre 1859


          Napoli è grande, immensa ai miei occhi. Il pullular delle genti è costante, praticamente a tutte le ore del giorno ed in alcuni luoghi anche di notte. Al porto poi si sentono parlare diverse lingue ed a prevalere è l’inglese, seguito dal francese.
          Anche l’olandese e lo spagnolo sono importanti e ben sentite lingue insieme con il portoghese.
          A San Pietroburgo, in Russia, mio padre mi ha detto che la nostra lingua, il napoletano, è addirittura insegnata all’università …ah già il russo è anche ampiamente parlato in Napoli così come il tedesco. Il maestro Riggio ci ha infatti detto che la nostra Città è una città internazionale.
          Pure, a girar bene Napoli, si capita in vicoli stretti dove alcuni bambini restano obbligati per tutta la loro vita, e la scuola per loro è e resta un lontano sogno; sono i “lazzari”; a loro spesso non tocca la Legge Imbriani che imporrebbe gli studi obbligatori fino alla quarta elementare e che porta il nostro Stato tra i primi in Europa. Tale legge fu varata a ridosso del 1845.
          In Italia, per esempio, il Regno di Sardegna ha varato solo adesso, nel 1859, la Legge Casati che obbliga la scuola minima fino alla seconda elementare!
          Questi “lazzari”, questi bambini sfuggono ad una Legge di Stato e restano analfabeti per tutta la loro vita, che tristezza; eppure a me piacerebbe conoscerne qualcuno per poter scambiar due parole.
          Il nostro è un popolo strano; direi che sembra diviso a metà. Una parte colta e sapiente da un lato, ed un’altra ignorante ma altrettanto colta naturalmente, di una cultura millenaria e diversa, e storicamente dall’altra parte, quella dei “Lazzari”.
          Eppure nel 1798 furono i “Lazzari” a difendere Napoli quando arrivò il generale francese Championnet…e ne morirono almeno diecimila, solo in Napoli.
          Non fummo noi, la parte colta, ad ergerci a difesa del nostro Stato…ad eccezione di qualche rara rappresentanza borbonica; noi restammo ben acquattati e silenziosi in attesa degli eventi.
          Anche il nostro Re Ferdinando IV, con tutta la Corte, era già riparato in Sicilia alla reggia “Ficuzza”.
          Egli fu costretto a rifugiarsi in una parte del Regno sotto protezione inglese, in particolare dell’ammiraglio Orazio Nelson.
          Durante questa passeggiata domenicale con mio padre nel rione Sanità, egli mi spiegò bene cosa avvenne tra il 1788 ed il 1815.
          Il suo racconto partì dalla spiegazione delle ragioni che portarono all’isolamento del rione Sanità rispetto al resto della Città.
          Un isolamento che stava facendo cadere l’economia del rione, una volta floridissima, peggio di un quartiere di lontana periferia di Napoli.
          Fu il re usurpatore del trono dei Borbone (di Ferdinando IV poi Ferdinando I), Gioacchino Murat che volle caparbiamente far costruire il ponte che oggi permette di non passare più attraverso il rione Sanità, il quale viene letteralmente scavalcato.
          La strada nuova parte infatti dalla reggia di Capodimonte che domina Napoli e permette di giungere, scavalcando appunto Sanità, fino ai quartieri reali sul mare.
          Quella Domenica imparai tantissime cose nuove e mio padre sembrava non volersi mai fermare nel suo racconto.
          Mi parlò anche della nascita ed effimera Repubblica Partenopea che durò meno di sei mesi, da gennaio a giugno del 1800 e della riconquista del Regno, per conto dei Borbone, operata dal nostro Cardinale Fabrizio Ruffo che partì da Bagnara Calabra con soli quattro uomini, per giungere a formare durante la risalita da Sud, l’armata Sanfedista che superò le trentamila persone quando entrò vittoriosa in Napoli.
          Poi nel 1801 si ristabilì la corte Borbonica in Napoli, fino al 1806 quando il Generale francese Massena in capo e Reynier in ausilio, invasero ancora il nostro Stato.
          Mi ricordo che Gioacchino Murat diventò re di Napoli nel 1808.
          Poi finalmente, dopo lunghe guerre, nel 1814/1815, con il congresso di Vienna, Napoli ritornò definitivamente ai Borbone.
          Mio padre sapeva ben raccontare i fatti storici ed il tempo passava velocemente senza che ce ne accorgessimo.
          Finimmo, non chiedetemi come, verso il rione Santa Lucia ed allora mio padre mi propose di passare davanti al Palazzo Reale che è appunto in Largo di Palazzo.
          Le guardie erano meravigliose a vedersi.
          A turno, con passi ritmici di marcia, cambiavano le loro posizioni fino a ricoverarsi nelle garitte per darsi il cambio, e tanta gente stava lì ad aspettare questo momento simbolico.
          Mio padre ed io stemmo fermi ad aspettare il cambio e ne fummo contenti.
          Poi mi disse:
          - Francesco, ma abbiamo fatto almeno dieci miglia a piedi, non hai fame?-
          - Beh, papà…sinceramente il ragù di mamma che oggi le è venuto speciale ed i paccheri di Torre Annunziata che erano sublimi, sono già sotto i miei calcagni…certo che ho fame!- Risposi.
          - Bene allora torniamo a casa da Via Toledo, è un po’ più lunga ma ci fermeremo a prendere un pasticciotto…oppure deciderai tu.- Disse stringendomi la mano ed iniziando a camminare.
          Mio padre mi voleva molto bene ed ogni mattina veniva a baciarmi prima di uscire per recarsi a lavoro; io ne ero felice ed orgoglioso al contempo.
          Giunti che fummo in via Toledo egli cercò un Caffè forse di sua conoscenza ed individuatolo mi ci portò subito.-
          - Bene Francesco accomodiamoci qui. Di fronte a questo sole ottombrino, su questo tavolo che ha un piccolo parasole di riparo.-
          Ci sedemmo contenti ambedue del bel giro turistico che avevamo fatto e proprio mentre ci stavamo scaldando un pochino al sole del tardo pomeriggio, arrivò il cameriere a chiederci cosa desiderassimo.
          - Mio padre prontamente ordinò un buon caffè bollente e poi, rivolgendosi a me disse:
          - Tu Francesco desideri una pastarella, dì pure, ordina!.
          - Cameriere avete un roccocò…di quelli morbidi, intendo?- Certamente signorino, rispose immediatamente!.
          - Bene io prendo un Roccocò.ed un bicchiere d’acqua fresca.- Risposi.
          - Il roccocò era meravigliosamente buono e ne diedi un pezzetto a mio padre che lo assaggiasse. Poi, dopo la consumazione, mio padre pagò e disse al cameriere:
          - Mi raccomando, nel conto prendete in considerazione un “caffè sospeso”, lo pago io.
          - Va bene rispose subito il cameriere.- Io restai esterefatto ed allontanandoci dal Caffè chiesi a mio padre le ragioni di quel caffè sospeso.
          - Caro Francesco, niente di particolare, ho lasciato un caffè già pagato per chiunque, magari a corto di denaro, avesse il desiderio di berne una tazza…tutto qui. Ma è per noi una tradizione, un modo d’essere.- Mi rispose tenendomi stretta la mano.-
          Capii in quel frangente l’importanza dell’altruismo a Napoli.
          Tratto dallibro
          FEGATO
          di Domenico Iannantuoni

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          • #6
            Il senso della scuola

            Il senso della scuola
            Questa mattina, appena sveglio, ho trovato una busta chiusa sul mio comodino e ne sono rimasto stupito. La grafia era quella di mio padre che riconosco a distanza…poi c’era anche la sua firma.
            - Per Francesco, firmato Raffaele Latella.- Così era scritto sulla busta.
            Stropicciai gli occhi e ne iniziai la lettura.
            Caro Francesco,
            ieri abbiamo fatto una bella ed istruttiva passeggiata e credimi ne sono stato felicissimo. Ne ho raccontato alcuni particolari a tua madre mentre tu eri già a letto e poi, non avendo sonno, mi è venuto in mente di scriverti questa mia lettera che ci renderà ancor più amici di quanto già noi siamo.
            Volevo parlarti del significato e del senso della scuola che io pure ho frequentato fino all’università.
            Per noi dello Stato delle Due Sicilie, devi sapere, che la scuola ha un senso profondo ed etico che capirai meglio durante i tuoi studi.
            Noi non studiamo obbligatoriamente per progredire e sopravanzare così gli altri popoli, ma progrediamo naturalmente approfondendo le nostre conoscenze come banale risultato del nostro studio.
            E’ questa una delle ragioni del nostro comportamento fatalista, che non vuol dire rassegnato ma bensì riportato alla volontà di Dio. Molti, nei paesi del Nord, vedono gli studenti come militari in carriera, obbligati allo studio per la crescita del sapere ma non del senso della sapienza; cosa, questa, per noi primaria prima ancora del sapere medesimo.
            Ecco, per esempio, come abbiamo costruito nella nostra Città, nel 1737, primo al mondo, il più bel teatro per la musica, il San Carlo che poi funse da modello per tutti gli altri teatri di cui leggi sui giornali.
            Non studiare dunque per primeggiare, ma per apprendere.
            Aiuta i tuoi compagni in difficoltà e non dirlo mai a nessuno.
            Chiedi umilmente, se ti è necessario, l’aiuto ad altri e non dimenticarti mai di menzionare chi ti ha dato aiuto.
            Vedi la tua scuola come una chiesa e rispettala. Ama il tuo maestro e ascoltalo sempre poiché è lui che ti sta forgiando nel tuo futuro di uomo.
            La sapienza sia per te non quanto saprai ma come tu lo saprai e sorridi sempre nelle difficoltà della vita.
            Un bacio, tuo Padre

            Tratto dallibro
            FEGATO
            di
            Domenico Iannantuoni

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            • #7
              Vincenzo di Bartolo e la rotta del pepe Racconto mensile


              Vincenzo di Bartolo e la rotta del pepe
              (Racconto mensile)

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              Vincenzo di Bartolo

              Lunedì 31 ottobre 1859


              Mia madre mi accompagnò a scuola, anche se ormai spesse volte questa la raggiungevo da solo, perché quella mattina aveva degli impegni presso la sartoria che stava lì vicino e forse mi avrebbe aspettato fino all’orario di uscita.
              Mentre camminavamo non parlai mai perché i miei pensieri andavano continuamente alla bella lettera di mio padre.
              Giunto a scuola baciai mia madre e distrattamente entrai.
              Ma quel giorno sarebbe stato per me e per tutti i miei compagni un giorno veramente speciale.
              Il mio maestro sbrigò in fretta le rituali formalità, attese un paio di minuti per veder entrare Antonio Loffredo (sempre in ritardo canonico) poi, si avvicinò alla porta e si rassicurò che fosse veramente chiusa.
              Con fare coinvolgente della sua mimica si avvicinò a noi camminando in punta di piedi e pose il dito indice sulle sue labbra in posizione verticale emettendo un sibilante – Sssssssssh- segno di richiesta di silenzio totale.
              Poi a bassa voce ci disse: - Oggi ragazzi, è una giornata speciale…la giornata del racconto mensile! – Rimanemmo tutti di stucco e silenti.- Il maestro proseguì. – Oggi vi parlerò, anzi vi leggerò di un grande uomo delle Due Sicilie che risponde al nome di Vincenzo di Bartolo…ma mi raccomando, massimo silenzio per avere la vostra massima attenzione.
              Poi aprì un libro di una certa dimensione e iniziò a leggere.
              Vincenzo Di Bartolo nacque ad Ustica (PA) nel 1802 e vi morì nel 1849. Egli fu un grande navigatore ancora oggi orgoglio della nostra marina duo-siciliana.
              Il padre Ignazio e sua madre Caterina Pirera, fecero non pochi sacrifici per fargli frequentare il pregiatissimo Istituto Nautico di Palermo.
              Poi Vincenzo, finita la scuola nautica, iniziò a navigare con impegni sempre nuovi e con armatori diversi. Egli però era anche un vero navigatore internazionale ed osservava come le grandi potenze del Nord Europa avessero formato un monopolio su alcuni prodotti delle terre lontane e principalmente quelle asiatiche. Gran Bretagna, Olanda, Francia, Danimarca e Svezia, avevano fondato tutte una propria Compagnia delle Indie orientali e stabilito così una specie di “cartello” monopolistico per la vendita di tutte le spezie. Tra queste vi era una spezia molto importante per noi: il pepe nero!
              Esso era venduto a cifre elevatissime dalle Compagnie delle Indie delle nazioni sopra richiamate costringendo gli stati a loro vassalli ad un vero e proprio salasso economico.
              Il pepe non veniva usato solo per le sue caratteristiche culinarie, ma soprattutto perché la sua funzione negli alimenti era quella di coadiuvarne la loro conservazione.
              Aprire una via del “pepe” che fosse solo dello Stato delle Due Sicilie, rimase il suo cruccio fondamentale per diversi anni finché trovò maniera di far conoscere questa sua idea all’Ammiraglio della marina mercantile delle Due Sicilie.
              L’ipotesi giunse quindi sul tavolo del re Ferdinando II, il quale ne rimase favorevolmente colpito, e direi addirittura entusiasta. Quindi approvò il progetto ma con pochi denari. Mise a disposizione del capitano Vincenzo di Bartolo uno stipendio fisso ma non gli garantì quello per la ciurma. Quindi gli concesse in uso il brigantino “Elisa” da 248 tonnellate di stazza. Ma al resto dei soldi doveva pensarci Vincenzo di Bartolo il quale, anziché annichilirsi, rimase felicissimo dell’intenzione di Ferdinando II.
              Procurarsi i soldi per lui era semplicissimo avendo a disposizione una nave.
              Contattò di lì a poco alcune aziende siciliane e calabresi dedite alla produzione del sapone derivato dall’olio lampante d’oliva. Questo era un pregiatissimo prodotto di cui le Due Sicilie andavano veramente fiere, e con queste aziende egli stabilì un pagamento della merce a vendita avvenuta, cioè al ritorno dal viaggio. Assunse poi una ciurma esperta di navigazione con promessa di pagamento a viaggio effettuato e a Palermo non ebbe difficoltà a trovarla.
              Caricò il suo brigantino e con le armi delle Due Sicilie spiegate al vento salpò da Palermo diretto a Boston, in America del Nord.
              In America la fame di sapone era nota a tutti gli europei e le Due Sicilie erano la prima potenza industriale produttrice d’Europa.
              Giunto che fu a Boston, gli advisor portuali comprarono tutto il carico del di Bartolo, ad ottimo prezzo, e questi, quasi subito, tornò a Palermo gioioso e pieno di dollari.
              A Palermo, Vincenzo di Bartolo subito si recò presso la sede del Banco di Sicilia (Socia del Banco delle Due Sicilie) per farsi cambiare i dollari in ducati, saldò tutti i suoi debiti verso i produttori di sapone e della ciurma, ma gli rimase a disposizione ancora una cospicua cifra per il suo viaggio verso le Indie Orientali. Era raggiante.
              Sapendo che le acque di Sumatra e dell’Indonesia in genere erano pullulanti di navi pirata, fece dipingere il brigantino con i colori di una nave da guerra ed all’uopo montò a prua una piccola colubrina che fosse ben visibile.
              Caricò dunque il vascello di tutte le produzioni tipiche delle Due Sicilie, quali vasi e ceramiche, specchi, sete, lane e tessuti, scacciapensieri e strumenti musicali, ed una gran quantità di ciò che noi chiamiamo cianfrusaglie ma di impatto per una eventuale compravendita.
              Poi lanciò il bando per la ciurma, ancora di dodici persone, ma questa volta la selezione fu più accorta e predilesse chi aveva già fatto qualche circumnavigazione dell’Africa.
              Completato l’equipaggio e stabiliti i salari, si dedicò con il suo vicecomandante appena nominato ai rifornimenti di acqua e vino e quindi dei viveri tra cui predilesse arance, mandarini, mele “annurca” e Cotogne e altre mele dolci e frutte di stagione durevoli, molti boccacci di frutta conservata e fichi secchi. Quindi farina per una buona panificazione di bordo e pasta secca in abbondanza, salumi e formaggi dei colli Nebrodi siciliani in gran quantità. Non mancarono diversi barili di buono e forte vino nero e bianco di sicilia e quindi di “Marsala”ed acqua a iosa.
              Poi sul molo, al momento di salpare, si raccolse una gran quantità di gente ed anche una banda musicale di Palermo che rallegrò il saluto ai nostri viaggiatori con l’inno al Re.
              Il viaggio iniziato in un giorno di aprile fu bellissimo e gli scali per approvvigionarsi di acqua fresca furono alle Canarie, a Capo Verde, a Città del Capo, e quindi fu affrontato il tratto più lungo del viaggio con arrivo a Sumatra, dopo soli 68 giorni di navigazione; era il primo di luglio del 1839!
              Era la prima volta che un veliero del Regno delle Due Sicilie si spingeva così lontano nelle Indie Orientali, rompendo così il monopolio del commercio del pepe mantenuto sino a quel momento da marine mercantili potenti e agguerrite come quelle inglese e olandese. Marine che non avevano certo a cuore un libero scambio di prodotti come lo era nella mente del nostro comandante.
              Vincenzo di Bartolo ed il suo equipaggio furono accolti con gentilezza dagli indigeni i quali apprezzarono subito lo scambio di doni con gioia e festosità. Una nota particolare va al grande apprezzamento non solo dei tessuti e dei manufatti in genere quanto al gusto eccellente dei prodotti alimentari delle Due Sicilie. Gusti unici al mondo!
              In breve dunque la porzione sud occidentale dell’isola di Sumatra iniziò la raccolta del “pepe nero e della “noce moscata” e di altre spezie sconosciute al di Bartolo ma un problema sopraggiunse immediatamente; il carico era leggerissimo e il brigantino non avrebbe retto il mare.
              Anche in questo caso l’amicizia del capo-villaggio fu tale che in breve furono portate al porticciolo grandi quantità di prodotti di Sumatra tra i quali non mancavano oro e pietre preziose che nella loro cultura non rappresentavano grande valore commerciale.
              La parte bassa della stiva fu colmata con questi preziosi doni e sopra questi trovarono alloggio le leggere spezie.
              Dopo pochi giorni il comandante Vincenzo di Bartolo, salutati i responsabili degli indigeni e stabiliti con loro rapporti di commercio continuativo, volse la prua all’oceano indiano ed iniziò il viaggio di rientro.
              Verso il finire del mese di ottobre dello stesso anno 1839 il porto di Palermo era già visibile all’orizzonte.
              La gioia ed il tripudio di gente, al suo ingresso in porto, fu enorme.
              Anche il vicerè delle Due Sicilie si aggiunse alle personalità di spicco cittadine.
              Tutta la notte fu poi rischiarata da bellissimi fuochi d’artificio e a Di Bartolo ed al suo equipaggio fu donata una ricchissima cena di “bentornato”.
              La via del “pepe”, autonoma ed autarchica, era aperta definitivamente e lo Stato delle Due Sicilie non fu più obbligato da quel giorno, a subire i prezzi imposti dalle Compagnie Indiane Orientali inglesi, o olandesi o danesi o svedesi.
              Il pepe nero, di ottima qualità, entrò quindi a prezzi minimi, oserei dire insignificanti fino ad allora, nelle produzioni alimentari casearie e dei salumi per la loro conservazione, nonché grande fu l’uso in cucina e nella farmacia delle Due Sicilie.
              Ferdinando II nominò il comandante Vincenzo di Bartolo Ammiraglio della marina mercantile. Egli fece molti altri viaggi verso l’Indonesia e Sumatra non solo a carattere commerciale ma anche diplomatico.
              A lui, inoltre, dobbiamo riconoscere l’apertura delle ambasciate delle Due Sicilie in quei paesi dell’estremo oriente.



              Tratto dal libro
              FEGATO
              di Domenico Iannantuoni

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              • #8
                Novembre Volersi bene




                CAPITOLO II

                Novembre
                Volersi bene


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                Martedì 1° novembre 1859

                Eravamo tutti piccoli “capitano Vincenzo di Bartolo” quel martedì a scuola.
                Una storia vera ed eccezionale, un uomo invidiabile, un orgoglio per tutti noi.
                Ma il nostro maestro non ci dava tregua nel suo raccontare eventi e circostanze che potessero solo lasciarci senza fiato.
                Quel martedì ci disse:
                - Cari miei bambini…scusate, miei ragazzi, anzi miei adulti ascoltatori. Voi dovete sapere che il nostro rapporto è bivalente ed in questi momenti, per noi tutti indimenticabili, vi dico che…io mi nutro della vostra discenza, mentre voi apprendete la mia docenza.- Si pose poi in mistica riflessione e chiuse gli occhi.-
                Il nostro maestro sapevamo che era un grande…non avevamo più bisogno di apprenderlo con altre dimostrazioni eclatanti; egli era anche un giusto, ossia una persona che riusciva a stabilire un rapporto equilibrato con la sua scolaresca e con tutto il mondo.
                Egli mai pretendeva, ma otteneva senza sforzo alcuno. Eravamo noi che gli donavamo docilmente e consapevolmente il nostro tempo, che lui acquisiva con semplicità estrema e lo gestiva saggiamente nelle sue elucubrazioni, sempre coinvolgendoci. Eravamo in tanti in classe, cinquanta, ma mai nessuno di noi si sentiva escluso dai suoi ragionamenti e dalle sue occhiate furtive. L’intera aula era pervasa dal suo umore quotidiano, dai suoi colori, dal suo senso educativo e dal suo amore per la docenza.
                Poi proseguì.
                - Il nostro Ammiraglio di Bartolo morì nel 1849, ora ricordiamolo per sempre nei nostri cuori come grande uomo delle Due Sicilie. –
                La giornata era indicata per raccontarci un'altra storia ma il nostro maestro era tanto gentile e premuroso che sapeva convincerci delle ragioni del programma ministeriale.
                Iniziò a camminare avanti e indietro rispetto alla cattedra come se non sapesse cosa dirci, ma dopo un poco si fermò di scatto ed urlò:
                - Le stelle, i pianeti, ossia Pietro De Martino ! -
                Rimanemmo tutti stupiti da quella affermazione diremmo quasi violenta e che prorompeva nel bel mezzo del nostro silenzio praticamente totale.
                Poi aggiunse:
                - Ragazzi, avete mai fatto una gita serale appena fuori dall’illuminazione della nostra Città? –
                Tutti ci guardammo e ci fu chi disse sì chi no, ed il brusio aumentava secondo dopo secondo.
                Allora il maestro riprese l’argomento in mano.
                - Dunque voi avete mai alzato lo sguardo al cielo?- No, sì, non mi ricordo…alterne risposte si susseguirono. E lui:
                - Bene bene, benone, anzi benissimo!- E si fermò davanti alla sua cattedra guardandoci tutti mentre ruotava il suo viso da sinistra verso destra.- Poi in serio silenzio ci disse:
                - Qui a Napoli, all’Università Federico II, nel 1735 venne affidata a Pietro De Martino la Cattedra di Astronomia, una scienza per la quale noi credevamo ed ancora oggi crediamo, importantissima e formativissima! –
                Il nostro maestro qundi ci spiegò del nostro sistema solare a partire da Mercurio per poi passare a Venere, alla nostra Terra e quindi a Marte, Giove e Saturno, chiudendo poi per Urano e Nettuno.
                Fece un appunto su Cerere dicendoci che era un pianeta nano, legato alla nostra storia delle Due Sicilie ma di cui ci avrebbe parlato in seguito.
                E le orbite ellittiche, e le osservazioni di Galileo e quindi le Leggi di Keplero che ci fecero capire che gli spazi (le aree sottese alle orbite) percorsi dai pianeti erano proporzionali ai tempi per la loro percorrenza.
                Il maestro Riggio, sempre abilissimo nel disegno, ci aveva rappresentato sulla lavagna l’intero sistema solare con la descrizione delle orbite dei pianeti…il tutto con proporzione delle reali distanze!
                La campana di fine scuola ci colse ancora immersi con stupore e meraviglia dentro il nostro cosmo. Avevamo capito in una sola lezione il senso del nostro divenire e contemporaneamente la nostra unicità.
                Una lezione bellissima che ancora io ricordo con estrema passione.
                *

                P-S- [1] A Pietro De Martino fu affidata la prima cattedra di Astronomia, in Italia nel 1735.
                [1] Napoli ebbe fin dal 1839 la prima illuminazione a gas di una Città Italiana (terza in Europa dopo Londra e Parigi) con 350 lampade.


                Tratto dal libro
                FEGATO
                di Domenico Iannantuoni

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                • #9
                  I compagni

                  I compagni





                  Lunedì 24 ottobre 1859



                  Ieri abbiamo partecipato il funerale del padre di Iarossi e sinceramente devo dire che non è stato bello vedere il figlio Angelo solo e piangente a fianco della bara nella chiesa dedicata a San Francesco d'Assisi (vicina alla nostra scuola), tant'è che il parroco invitò un gruppo di suoi amici di scuola a fargli compagnia ed egli fu tristemente contento di questo fatto. Io stesso gli andai vicino e stetti sempre con lui.

                  La chiesa era gremita e pareva ci fosse veramente tutta la scuola, tra allievi ed insegnanti. Il mio maestro era sul lato destro del sagrato vicino al direttore, in prima rappresentanza, poi maestre, maestri e bidelli completavano la presenza. C'erano anche alcuni esponenti della Ditta ove (Michele) Iarossi lavorava, le Officine di Pietrarsa, con tanto di gonfalone aziendale e vestiti con le loro tute da operai. Tra questi una persona distinta che doveva essere un rappresentante della direzione d’azienda. Come si seppe dopo, Iarossi era un operaio qualificato addetto ai collaudi delle macchine a vapore, un lavoro delicatissimo e per il quale l'uso della strumentazione di precisione era d'obbligo quotidiano.


                  Si giunse rapidamente alla fine della funzione ed alla benedizione del parroco; entrarono i becchini che portarono il feretro alla carrozza e da qui si avviarono celermente, al piccolo trotto, verso il cimitero delle 366 fosse .


                  Un cimitero molto importante del 1762 e voluto da Ferdinando IV di Borbone per le classi meno agiate. L'architetto progettista fu Ferdinando Fuga...così ebbe a spiegarci il nostro maestro.

                  Si ritornò tutti a scuola dopo la funzione, tutti tranne Angelo Iarossi che si era recato al Cimitero. Ma Angelo non lo vedemmo più in classe, la sera stessa fu ospitato all'accademia militare della Nunziatella per iniziare una nuova vita.

                  I miei compagni sono tanti e li conosco quasi tutti.

                  Jannace, figlio di un famoso fabbro napoletano che giunge a scuola sempre con le mani nere di fuliggine che lui dice, scusandosi, non venir più via nonostante lunghi lavaggi serali e mattutini.

                  Marro, figlio di un avvocato, vestito in modo sempre pulito ed ordinato che quando parla inizia sempre con un "scusatemi se intervengo!".

                  Stranges, un calabrese il cui padre fa il marinaio militare, risoluto e taciturno.

                  De Crescenzo, figlio di un nobile caduto in disgrazia economica, allegro e spensierato in ogni momento della giornata.

                  Maraglino, uno spasso di ragazzo. Durante l'intervallo ascoltiamo sempre le sue barzellette che ci fanno scompisciare dal ridere.

                  E poi il più bravo della classe, uno di quelli che si era avvinghiato ad un primo banco il primo giorno di scuola, tal Meomartino. Non molto simpatico e schivo.

                  Abbiamo anche un ripetente, Ciceri Gaetano, di origini lombarde e trasferitosi a Napoli per necessità di lavoro. Egli è grande e grosso per la sua età, simpatico e leale; in molti facciamo a gara per stare con lui durante i momenti di riposo e lui gioiosamente ci insegna qualche parola di milanese; l'ultima che ho imparato è "urlucc" che significa allocco o qualcosa di simile. E' un buon ragazzo e lo vedi da come sa accogliere tutti senza distinzione, ma a livello di preparazione scolastica lo hanno fermato un anno perchè in matematica aveva seri problemi.


                  Gli altri compagni ve li presenterò con calma nelle prossime giornate.

                  Tratto dal libro

                  FEGATO


                  di Domenico Iannantuoni

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                  • #10
                    I nostri morti

                    I nostri morti


                    Mercoledì 2 novembre 1859

                    E’ questo un giorno particolare dedicato ai morti, Francesco; e noi ne abbiamo avuti tanti, tantissimi nel corso di questi anni, Tralascio volutamente quelli dovuti alle malattie gravi, al colera, ai terremoti ed altro ancora, infatti queste sono morti naturali e che l’uomo non è riuscito ad evitare, ma voglio soffermarmi sui morti delle guerre.
                    Desidero farti vedere con i tuoi occhi innocenti, coloro che morirono senza ragione alcuna.; in guerra.
                    Vorrei per un attimo che tu pensassi anche al dolore dei genitori che hanno visto morire i loro figli e a quello dei figli che hanno visto morire i loro genitori in una catena inestricabile di responsabilità umane e politiche.
                    Ti ricordo che solo la parentesi repubblicana francese ha provocato, nel nostro Stato delle Due Sicilie, oltre sessantamila morti, dal 1799 al 1801.
                    Che tristezza Francesco, che orrore e che sfacelo.
                    I nostri cittadini furono impalati, sepolti vivi, sgozzati , fucilati…senza se e senza ma.
                    Poi nel 1806 la nuova ondata di francesi, questa volta imperiali napoleonici, con Massena, Reynier e Manhè, ha invaso ancora le nostre terre e furono tantissimi i nostri morti da Campestrino a Campotenese, da Maida e Montemileto.
                    Quindi la campagna di Russia con trentamila uomini delle nostre provincie al seguito di re Gioacchino Murat...praticamente di quei giovani non tornò nessuno.
                    Poi Tolentino e quindi la prima guerra per il salvamento di Milano e la formazione della federazione italiana del 1848, che ci vide tutti insieme alleati contro l’Austria, sotto la guida di Pio IX e gli eventi di Curtatone e Montanara e quindi di Venezia, poi la nostra guerra civile contro la Sicilia di Ruggero VII, voluta ed orchestrata dall’Inghilterra, nel 1848 e 1849…che tristezza uccidersi tra fratelli e giungere alle barbarie più crudeli.
                    Quanti morti, quante ingiustizie, quanto dolore caro Francesco.
                    Uomini caduti nel nulla solo per le violenze volute e dettate dai loro superiori, dai loro caporioni, Essi non possono tornare indietro, qui, a dirci non fatelo, non ascoltate chi vi invita alla violenza e a trasgredire la parola di Dio.
                    Le loro bocche sono ora cucite nel dolore eterno e solo noi, chiudendo gli occhi e pregando riusciamo a sentirle.
                    Noi le ricordiamo volutamente, queste centinaia di migliaia di uomini che combatterono queste guerre sbagliate e che subirono non la giustizia divina ma quella terrena ed effimera dei loro capi, noi le ricordiamo.
                    La nostra gratitudine va, deve andare a queste vittime che oggi non sono più fra di noi, affinchè la loro sorte ci sia da guida in questo frangente della nostra vita.
                    Credimi Francesco, il loro urlo silente ci dice proprio questo: la guerra è orrore ed è solo figlia del demonio.
                    Tua madre




                    Tratto dal libro

                    Fegato
                    di
                    Domenico Iannantuoni

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                    • #11
                      Il mio amico Gaetano Ciceri

                      Il mio amico

                      Gaetano Ciceri

                      venerdì 4 novembre 1859

                      I due giorni di vacanza passarono celermente, ma credetemi, non vedevo l’ora di tornare a scuola. Era così vero che al mattino mia madre non doveva mai chiamarmi e mi trovava pronto per la colazione in cucina, dove il profumo del caffè già ne aveva impregnato l’ambiente.
                      La mia colazione era sempre molto sostanziosa ed insieme al mio caffelatte potevo decidere di mangiare un dolce tipico e stagionale napoletano ma più spesso io preferivo farmi un “zuppone” immergendo pezzetti di pane “cafone” duro nella tazza colma di caffè e latte. Ne andavo in visibilio perché il pane leggermente salato contrastava con il dolce del latte, poi il caffè faceva il resto.
                      Uscivo da casa sempre con qualche minuto di anticipo e durante il tragitto pensavo a quale sorpresa ci avrebbe riservato per quel giorno il nostro maestro, iIl mio maestro…sentivo proprio di volergli bene.
                      Quella mattina però entrava nella mia mente anche Gaetano Ciceri, il nostro compagno ripetente, quello di Milano.
                      Fatto sta che proprio davanti alla scuola lo vidi arrivare trotterellante. Era un ragazzo alto e massiccio e secondo me a nove anni era già oltre un metro e sessanta.
                      - Ciao Ciceri, come mai sei arrivato prima a scuola?- Gli chiesi.
                      - Bah, stamattina a “cà mia” si sono svegliati tutti presto e col baccano io non riesco a dormire. Poi mio padre doveva recarsi a Caserta per assistere ad alcuni lavori di manutenzione urgenti ed il treno sai che ha degli orari rigidissimi.- Rispose restando un po’ inclinato sulla mia statura.
                      - E tu perché sei arrivato in anticipo?- Mi chiese
                      - Io tutte le mattine arrivo a quest’ora, a me questo maestro piace molto e non vedo l’ora di iniziare una nuova lezione.- Gli risposi.
                      - Senti un po’, perché oggi pomeriggio non vieni a trovarmi a casa?-
                      - Se mia madre è d’accordo verrò volentieri, verso le quattro ti va bene?- D’accordo, mi rispose. Quindi entrammo insieme in scuola come al solito in anticipo.
                      Ciceri era veramente un bravo ragazzo, sempre disponibile con tutti ed altruista. Prestava tutto ciò che aveva, matite, gomme, colori a chiunque glie lo chiedesse. Era anche il protettore dei più piccoli affinché non subissero angherie o scherzi dai più grandi. Ma non faceva mai nulla che non fosse un atteggiarsi a proteggere, chessò, alzando un braccio o imponendosi con la sua statura a dimostrazione della sua forza, che subito i contendenti sgattaiolavano via a cercar rifugio e lui sempre in chiusura gli lanciava contro un’imprecazione in milanese.
                      - Ven chi che te cambi l’urientament di’recc!- Ma poi sorrideva bonariamente e accarezzava il suo ragazzo protetto.
                      Finita la lezione, che fu incentrata su un dettato ed alcuni esercizi di aritmetica, tornai di gran carriera a casa per avvisare mia madre dell’invito che avevo ricevuto da Ciceri, ma lei subitaneamente, senza che io insitessi, mi rispose che andava bene e che potevo andare a giocare con il mio compagno… naturalmente dopo aver fatto i miei compiti. Abbracciai e baciai mia mamma tante volte e lei ne fu felice.
                      La casa dove abitava Ciceri era in una viuzza vicino al Gesù Nuovo e la raggiunsi rapidamente.
                      Bussai ed una voce femminile uscì da una finestra del primo piano chiedendomi chi fossi.
                      - Sono Francesco, un compagno di scuola di Ciceri!- Risposi celermente.
                      Sentii un ruzzolar dalle scale e subito si aprì il portoncino.
                      La faccia di Ciceri era raggiante.-
                      - Eccoti qui, come sono contento, Francesco.- E mi abbracciò invitandomi a salire.
                      La casa era modesta ma ordinata e decorosa e Ciceri mi presentò subito a sua madre parlandole in milanese.
                      - L’è un me amis de scola, Francesco, el secund de la class!.- Disse a sua madre e lei rivolgendosi a me:
                      - Bene Francesco, che tu sia il benevenuto a casa mia. Divertitevi pure insieme che io poi vi preparo una merenda.-
                      Subito Ciceri estrasse i suoi giochi preferiti che erano dei soldatini di piombo decorati minuziosamente ma poi con fare corrucciato e guardandoli ben bene, disse:
                      - Ma questi sono per bambini piccoli, cosa dici Francesco?.- Io annuii e chiesi a lui se non avesse una carta nautica del mediterraneo e degli oceani Atlantico ed Indiano.- Egli annuì ed aggiuse:
                      - Certo che ce l’ho, è una copia naturalmente di alcune pagine dell’Atlante Marittimo[1]…vado a prenderle!
                      Poi armati di matita, gomma ed un foglio grande un po’ trasparente ricopiammo le porzioni dei mari e degli oceani che il nostro Vincenzo di Bartolo navigò per raggiungere Sumatra e tracciammo su di essa la rotta che l’Elisa seguì. Fu un lavoro bellissimo che ci impegnò per molto tempo.
                      A merenda la madre di Ciceri ci accarezzò e ci diede un prodotto “milanese” che lei faceva per tradizione e che era buonissimo.
                      - Ragazzi, rifocillatevi un po’ con questo dolce che ho fatto io con le mie mani e l’ho da poco ritirato dal forno qui vicino:
                      - Si chiama a Milano “pan di mort” e lo cuciniamo durante questo periodo novembrino.-
                      Senza farcelo ripetere ne prendemmo una porzione per uno ed iniziammo a gustarlo.
                      - Molto buono davvero Sig,ra Ciceri, oggi ho conosciuto una eccellente ricetta lombarda; complimenti!-
                      La Sig.ra Ciceri mi sorrise e mi fece una carezza sulla mia guancia ben impolverata di zucchero a velo.
                      *
                      [1]Nel 1792 fu dato alle stampe il Primo Atlante Marittimo nel mondo ( G. Antonio Rizzi Zannoni, Atlante marittimo delle Due Sicilie. (Vol.I) elaborato dalla prestigiosa Scuola di Cartografia napoletana.

                      Il mio amico

                      Tratto dal libro
                      FEGATO di

                      Domenico Iannantuoni








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                      • #12
                        Classi sociali e rispetto



                        Classi sociali e rispetto

                        Lunedì 7 novembre 1859


                        Da noi, a Napoli, il rispetto reciproco è fondamentale, ma spesso qualche nota stridente in mezzo alla strada e raramente a scuola la si sente…quella volta accadde.
                        Marro, il figlio dell’avvocato, quello vestito sempre in modo pulito ed ordinato, un giorno, durante l’intervallo, litigò, e ancora oggi non abbiamo capito il perché, con Santomarco, un ragazzo sicuramente povero ma certamente onestissimo.
                        Egli con il suo fare sempre gentile gli disse:
                        - Scusami se te lo dico, ma tu , tuo padre e tutti i tuoi siete dei cafoni!-
                        Il Santomarco, a sentire quell’offesa, per quanto più minuto del Marro, gli si avventò contro e lo prese per il collo stringendo con tutta la sua forza. Presto si formò attorno un gruppo di ragazzi che, a dire il vero, più spingevano alla lite che non al riappacificamento.
                        Volò anche qualche suggerimento del tipo:
                        - Strappagli i capelli, che Marro non merita!- Oppure:
                        - Dagli un pugno in faccia Santomarco, non cedere!- Insomma sembrava un quadrato di lotta libera.
                        Mentre i ragazzi se le suonavano e si bisticciavano entrò il nostro maestro.
                        Nessuno si era accorto che l’intervallo era finito.
                        Le grida scemarono quasi immediatamente ad eccezione che per i contendenti che ormai erano rovinati a terra e continuavano a pestarsi con forza e ragione.
                        Il maestro si avvicinò e allontanò allargando le braccia tutti gli astanti. Si chinò, e prese per le orecchie, prima l’uno e poi l’altro, Marro e Santomarco, che continavano nonostante tutto a roteare le braccia senza darsi ragione della presenza del maestro.
                        Si sa, la forza di un adulto è notevole e dopo alcuni secondi essi si resero conto di non riuscire più a colpirsi…ma in cagnesco continuarono a guardarsi.
                        Il maestro si mise fra loro due, conservò le braccia dopo essersi assicurato che i due si fossero calmati e disse:
                        - Bene bene, benone benone…una nuova attività sportiva la vostra?-
                        E attese una risposta che non sopraggiunse.
                        Poi, senza farsi notare da Santomarco, diede un sonoro schiaffo a Marro che quasi subito, anche se allibito, iniziò a piangere. Poi si girò verso Santomarco che stava per pronunciar parola, ma anche questi venne colpito duramente da un secondo schiaffo da parte del maestro. Anche Santomarco iniziò a pignucolare, meno intensamente di Marro.
                        - Vergognatevi tutti e due!- Aggiunse.
                        - Andate ai vostri posti e sedetevi immediatamente! Stessa richiesta faccio a tutta la classe.-
                        Il maestro era visibilmente offeso e soprattutto molto preoccupato.
                        Fece alcuni giri intorno alla cattedra, pensieroso sul da farsi, poi si sedette e ci guardò intensamente. Quindi disse:
                        - Quali saranno state le ragioni della lite di Marro e Santomarco? Vi dico la verità, a me non interessano affatto! Alzare le mani a scuola, nella mia classe inoltre, è una cosa vergognosa. E sapete perché?.-
                        Dopo qualche secondo di attesa senza alcuna risposta il maestro riprese.
                        - Perché la scuola è sacra! Essa è come una chiesa e merita identico rispetto da parte di tutti noi.
                        Marro e Santomarco, voi avete mai visto fedeli che si picchiano in chiesa?- I due ragazzi abbassarono lo sguardo.
                        - Ora venite qui, di fianco a me, uno a destra e l’altro a sinistra, presto!.- Subitaneamente i due si recarono dal maestro.
                        - Ditemi chi è stato il primo, chi ha sollecitato le ire dell’altro?- Chiese con fare risoluto.
                        - Sono stato io!- Rispose Marro.
                        - Ho detto a Santomarco che lui e i suoi familiari sono dei cafoni…- Santomarco stava zitto e con gli occhi abbassati.
                        - Non mi sembra un bel complimento, nel senso che tu hai voluto intendere…certo tu sei un figlio di avvocato, sei una persona che vive in ambienti altolocati…e ti sei sentito in DIRITTO di offendere un tuo mite compagno di classe…ma perché?- Chiese il maestro.
                        - Stavo parlando con Santomarco del “Bacino di Carenaggio[1] in muratura”, alla cui inaugurazione mio padre partecipò anni fa. Ed ogni tanto mi racconta della meravigliosa festa…- E allora, proseguì il maestro?
                        - A Santomarco evidentemente non interessava la cosa ed io indispettito l’ho offeso.-
                        - Chiedi scusa a Santomarco, e tu , Santomarco, accettale di cuore. Che non accada più un fatto simile nella mia classe. Baciatevi e tornate al banco tenendovi per mano. Non dirò nulla ai vostri genitori, solo li inviterò a farvi fare i compiti insieme almeno una volta alla settimana. Tornate alla vostra antica amicizia, senza alcun rancore.- I due eseguirono e si strinsero affettuosamente.
                        Il maestro però era ancora assorto e pensieroso. Poi, dopo diversi minuti, ci disse:
                        - Sfrutto questo accaduto per parlarvi di quest’opera molto importante e della quale speriamo che tutti voi ne apprezzerete i vantaggi. Aggiungo che il papà di Marro fa bene a narrare della sua inaugirazione al figlio. Essa fu un grande successo.- Poi proseguì:
                        - Il nostro Bacino di Carenaggio, tra i maggiori al mondo per le sue caratteristiche, è spesso utilizzato da molte compagnie navali straniere, oltre che dalle nostre, ed è veramente importante per dimensione e profondità mentre è un vero pregio narrare delle sue fondazioni.
                        Un sicuro vanto della nostra ingegneria. D’altro canto il nostro porto di Napoli, proprio per il grande traffico internazionale che lo impegna ne aveva necessariamente bisogno. Infatti, anticamente i vascelli che necessitavano di manutenzione alla propria chiglia venivano tirati a secco e adagiati prima su un fianco e poi sull’altro, con tempi lunghissimi di lavorazione e soverchi casi di danni suppletivi, oggi, a Napoli, è invece possibile utilizzare per questa manutenzione il nostro Bacino.
                        Il vascello entra quindi nel bacino, primariamente a livello del mare, poi vengono chiuse le paratie e sistemati dai nostri sommozzatori gli appoggi di fondo, quindi un apposito motore a vapore viene azionato e questi a sua volta muove in rotazione le pompe di drenaggio del Bacino. La nave resta così, dopo qualche ora, sospesa agli appoggi di fondo, completamente all’asciutto, per consentire l’esecuzione, da parte degli operai, della regolare manutenzione della chiglia o della poppa e comunque del fasciame inferiore.-
                        La campana stava suonando, e noi eravamo rimasti incollati alle nostre sedie. Il maestro ci invitò ad uscire ed alzandosi andò a baciare Marro e Santomarco.
                        *
                        [1]Primo Bacino di Carenaggio” in muratura dello Stato delle Due Sicilie e quindi d’Italia, costruito nel 1852 nel porto di Napoli.


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                        Domenico Iannantuoni

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                        • #13
                          Mia sorella

                          Mia sorella



                          giovedì 10 novembre 1859


                          Caro diario, stavo dimenticandomi di dirti di mia sorella.
                          Ebbene sì, ho una sorella maggiore di me di tre anni e nove mesi.
                          Si chiama Maria, come la stragrande maggioranza delle femmine nello Stato delle Due Sicilie.
                          Lei frequenta la quinta elementare ma ha un anno in più di quello che dovrebbe avere poiché per una questione di malattia perse un anno di scuola, e precisamente la prima elementare.
                          Ci vogliamo molto bene, ma la differenza di età non ci permette di poter fare ragionamenti e discussioni di pari livello e così la nostra frequentazione è soprattutto legata ai momenti comuni in casa, durante i pranzi e le cene.
                          Lei è molto golosa e mangia tantissimo e di tutto, pur non essendo affatto grassa.
                          Al contrario di me che sono un po’ difficile nell’alimentazione e spesso faccio perdere la pazienza anche a mia madre che in genere mi protegge sempre.
                          Mia madre dice sempre che assomiglio a suo padre che si alimenta pochissimo, spessissimo e malissimo.
                          Mio padre durante i momenti dei pranzi e delle cene non mi critica mai e si contenta del fatto che amo sorseggiare con lui un goccio di vino nero, in una minima dose, consentitami da mia madre.
                          Anzi, proprio da circa un anno fu per me una vera conquista quel goccio di vino nero. Fino ad allora mia madre soleva colorarmi l’acqua con un po’ di vino per farmi sentire uguale a mio padre. Un giorno io le dissi:
                          - Scusami mamma, ma il vino che tu metti nell’acqua, resta pur sempre vino anche se miscelato all’acqua?-
                          - Certamente!- Rispose lei.
                          - Allora quando bevo acqua e vino, nel mio corpo entra sia l’acqua sia il vino?- Sì rispose lei.
                          - Dunque è sempre la stessa quantità di alcool che ingerirei se dovessi bere prima il vino assoluto e poi l’acqua assoluta?- Le dissi scrutandola negli occhi.
                          - Beh, in effetti…sì, non saprei, ma a ragion veduta il tuo pensiero non fa una piega.- Rispose.
                          Da quel giorno conquistai il diritto di bere prima il mio “dito” di vino, gustandolo pienamente, e poi la preziosa acqua.
                          Mio padre si gongolava di questo fatto, mi vedeva grande quanto lui. Era soprattutto orgoglioso del ragionamento da “scacco al re” che avevo fatto con mia madre, la quale ad ogni inizio pasto, da quel giorno, bofonchiava non so cosa, ma mi sorrideva poi apertamente quando mi serviva il goccio di vino.
                          A mia sorella, nonostante più grande di me, il vino non piaceva affatto e beveva solo acqua, ma soprattutto mangiava tantissimo.
                          Il cibo a casa mia non mancava mai tuttavia mia madre era sempre economa e rispettosa di un minimo di misura tra tutti noi. Per esempio quando era tempo delle ciliege, lei ce le serviva contate ad ognuno di noi e le divideva sempre in parti uguali. Il pane, io adoravo quello di tipo "cafone", era a libero consumo ed io a merenda spesso e volentieri mi preparavo, in estate, una grande fetta di pane cafone con pomodoro "sprizzato" sopra, olio extravergine d'oliva. sale ed origano.
                          Svengo al solo pensiero.
                          In inverno usavo i pomodori del "pennolo", appunto quelli che raccolti a fine estate erano idonei alla conservazione per diversi mesi purché appesi in intreccio all'aria.
                          Buonissimi anche loro, spesso gialli fuori e arancioni dentro. Dopo Natale mio padre riceveva alcuni doni tra cui non mancava mai il "sanguinaccio", una bontà derivata dalla lavorazione del sangue di maiale misto a cacao e mandorle tostate...da spalmare su una grande fetta di pane "cafone".
                          Accadde un giorno che mia sorella, presa da non so quale raptus, mangiò prima dell’orario di cena canonico, quasi un pollo intero che sarebbe dovuto bastare per tutta la famiglia.
                          Mia madre sgridò mia sorella ma non si scompose affatto e pur dopo la doverosa sgridata, disse:
                          - Beh, si vede che avevi proprio fame, piccola mia. Ora mi aiuteresti ad inventare un altro secondo piatto?- Certo disse mia sorella contenta di averla scampata "bella", corse in dispensa e prese il boccaccio con le salsicce conservate sotto grasso e le porse a mia madre.
                          - Mi sembra un ottima idea, brava Maria.-
                          Quel giorno mia madre servì gustosissime salsicce in padella con friarielli saltati, il tutto accompagnato da morbidissime zeppole alle alghe marine.
                          Un pranzo favoloso durante il quale mio padre, approfittando di una momentanea assenza di mia madre, mi versò di nascosto un secondo goccio di vino. Ma non fu tanto di nascosto in quanto mia madre, tornata dopo poco e osservando il mio bicchiere disse:
                          Mi sembrava che tu avessi già bevuto acqua mentre vedo il tuo bicchiere adombrato ancora di vino…mah,-
                          E guardò fisso mio padre che fece finta di nulla ma arrossì non poco, e girandosi verso il balcone disse:
                          - Oggi moglie mia, ci hai fatto veramente felici in una giornata meravigliosa.-
                          - Ma io non sono fessa!- Gli rispose mia madre con un sorriso smagliante.
                          Grande il mio papà!

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                          di
                          Domenico Iannantuoni

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                          • #14
                            Mia madre e mio padre

                            Mia madre e mio padre


                            giovedì 10 novembre 1859

                            La mia famiglia è molto unita e mia madre e mio padre si amano con sincero affetto.
                            Spesso, quando io sono già a letto nella mia cameretta, sento loro parlare un po' a bassa voce per non disturbare il nostro eventuale sonno che quasi subito prende il sopravvento.
                            Mia sorella, già grande, dorme in una seconda cameretta adiacente alla mia.
                            E' in genere il dolce confabulare dei miei genitori ad accompagnarmi nel sonno.
                            Io sono proprio un ragazzo fortunato e me ne convinco ogni giorno che passa perché conosco tanti compagni che per disgrazie diverse non hanno più uno dei due genitori e la recente esperienza di Angelo Iarossi mi stringeva ancora il cuore al solo pensiero della sua orfananza così precoce di tutti e due i genitori.
                            Quanti bambini sono nei nostri ricoveri per l'infanzia perché abbandonati ancora in fasce e che cercano, una volta cresciuti, attraverso i loro sguardi profondi, un viso amico al quale poter esternare la loro profonda angoscia.
                            Angoscia che resta sempre stampata nei loro comportamenti di tutti i giorni.
                            L'armonia che noi bambini fortunati godiamo in casa nostra è un dono Divino per il quale non dovremmo mai smettere di ringraziare il nostro Signore, eppure spesso ce ne dimentichiamo e trascuriamo.
                            I miei genitori si conobbero che erano ancora ragazzini, lui sedici anni e lei quindici, pure si innamorarono quasi subito ed iniziarono a frequentarsi con assiduità.
                            I genitori di mia madre furono immediatamente consenzienti ed ammiravano in continuazione l'impegno e la grande volontà di progresso negli studi di mio padre che infatti proseguì con l'università. Pure mia madre studiò parecchio e prese il diploma di maestra elementare ed insegnò finché non nacqui io.
                            Si sposarono a ventiquattro e ventitre anni, nella chiesa dove risiedeva mia madre , quella della S.S. Maria Assunta, praticamente il Duomo di Napoli.
                            Loro non hanno segreti e noi figli conosciamo ogni fatto di casa ed ogni esigenza, nel bene e nel male.
                            Ogni tanto penso al mio futuro ed alla ragazza che conoscerò e che forse poi, e lo spero, diventerà mia moglie, e mi auguro sempre di cuore che la mia vita assomigli a quella dei miei genitori e per questo prima di addormentarmi prego in silenzio.

                            Tratto da
                            FEGATO
                            di
                            Domenico Iannantuoni

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                            • #15
                              Domenica 13 novembre 1859

                              Questa domenica l’ho voluta dedicare proprio a far visita ad un mio compagno lavoratore e tra l’altro so che sono tanti nella mia classe a darsi da fare lavorativamente.
                              So anche che con profondi sacrifici i loro genitori li mandano a scuola durante la settimana, ma nel pomeriggio tardo, la sera e soprattutto la domenica credo proprio che il lavoro li aspetti per dare un aiuto alla famiglia.
                              D’altro canto, e non lo dico per sollevarmi dalle mie responsabilità di ceto, la crescita della società civile passa anche attraverso questi fatti ed anche mio padre ne è convintissimo.
                              Certo però che il maestro Riggio, non può ignorare queste situazioni… no, non può.
                              Il mio compagno Matteo Regina lavorava con la sua famiglia proprio in una pizzeria sul lungo mare, nominata la “Taverna del Gusto”. Egli era un muscoloso ragazzotto, compagno di banco di Marro, il figlio dell’avvocato, tanto forte quanto buono, che a dimostrazione di ciò, si stava impegnando quella mattina a mescolare la farina con il lievito madre e l’acqua per fare la pasta da pizza.
                              Era abbastanza presto ed io potevo liberamente muovermi in città, primo perché a messa ci ero andato con la mamma la sera prima del sabato e secondo perché mio padre mi aveva dato il benestare fino alla una per l’ora di pranzo… hai voglia!
                              - Ehi, Francesco, che piacere vederti qui.- Mi disse dopo avermi avvistato mentre ansimava per lo sforzo che esercitava sull’impasto.
                              - Ciao Regina, sono venuto a salutarti, ero nei paraggi, e vedo che il lavoro non ti manca.- Risposi.
                              - Eh, caro mio Francesco, quello che sto facendo non è il primo impasto e rispetto a quelli di ieri sera è il terzo … ma alla fine di questa Domenica spero di arrivare almeno al settimo!- Mi rispose con un bel sorriso.
                              - Tuo padre e tua madre dovrebbero essere felicissimi.- Gli dissi.
                              - Aspetta ad andar via. Ho quasi finito e posso dedicarti qualche minuto.- Mi rispose.
                              Attendendo Regina, mi misi davanti al mare ad ascoltare il fragore delle onde e mi sedetti sulla battigia appoggiandomi ad un provvidenziale muretto.
                              Le vele latine correvano sul mare spinte dalle dolci e costanti brezze, esse portavano o passeggeri o pesce od entrambe le cose. Grandissime navi erano nella rada di Napoli.
                              Tra queste i velieri erano ormai pochi rispetto ai piroscafi a vapore.
                              Il porto di Napoli era veramente immenso ed alle sue estremità c’erano tanti depositi di carbone dove si essiccava il combustibile utile ai piroscafi ed al riscaldamento delle case dei ricchi; mentre come scarto della lavorazione si produceva un gas, il monossido di carbonio, che la società distributrice, immetteva nelle condutture sotterranee atte ad alimentare l’impianto di illuminazione della città.
                              Regina mi raggiunse dopo circa dieci minuti e si sedette vicino a me.
                              - Allora Francesco cosa vuoi dirmi?- Mi chiese.
                              - Sono venuto ad ammirarti caro Regina … il tuo lavoro e la tua operosità, mi lasciano ammirato … e tu non sai quante volte ho immaginato di essere come te, più utile alla società.- Gli dissi.
                              - Ma tu sei più ricco di me, ed è normale che io lavori e tu no!.- E mi guardò con fare crucciato.
                              - Non so, caro Regina, non ne sono così convinto di questo …- Risposi
                              Regina mi mise un braccio intorno al collo e mi strinse un poco; sapeva che ne avevo bisogno ed era vero.
                              Non disse nulla. Ascoltammo per oltre mezzora i fischi dei piroscafi che entravano in porto, mentre il Vesuvio mostrava il suo pennacchio di fumo ed il mare luccicava nel sole mattutino.



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                              FEGATO
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                              Domenico Iannantuoni

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